La sfida del 4.0

La diffusione dei principi legati a Industria 4.0 ha cambiato profondamente il mondo manifatturiero italiano, in particolare settori come quelli della lavorazione della lamiera dove interconnessione e digitalizzazione sono stati un volano al rinnovo tecnologico del parco macchine delle aziende. Non sempre però questi investimenti in tecnologia sono stati accompagnati da un lavoro altrettanto attento sulla formazione di skill e competenze digitali, elementi fondamentali per rendere l’intera filiera veramente 4.0. Ne abbiamo parlato con Marco Taisch, presidente di MADE – Competence Center Industria 4.0 e professore al Politecnico di Milano.

Parliamo di Industria 4.0, un concetto che è entrato nella quotidianità delle nostre aziende. Per quello che è il suo osservatorio sul mercato delle macchine utensili e delle lavorazioni meccaniche, ora le macchine nelle officine e negli stabilimenti italiani sono veramente interconnessi? Il mondo manufacturing italianoha veramente cambiato volto?

Si tratta di una diffusione a macchia di leopardo. Credo che ci siano aziende che hanno capito perfettamente qual è lo spirito dell’industria 4.0 e che lo stanno di fatto adottando in maniera corretta, coerente e completa. Ovviamente c’è un tema di dimensione e un tema temporale. Le aziende più grandi sono quelle che hanno capito subito l’importanza dell’interconnessione e sono quelle che hanno adottato queste tecnologie per prime. 

Questo è normale, sia per la capacità di investimento delle grandi aziende, sia perché in queste ultime è più facile trovare persone che abbiano le competenze e la curiosità che consentono di comprendere l’insieme delle tecnologie e di vedere la direzione nella quale bisogna andare. Anche un processo di innovazione organizzativa come Lean Manufacturing alla fine degli anni ‘80 si è diffusa prima nelle grandi imprese. Così oggi nell’automotive industria 4.0 si è propagata dalle grandi verso tutta la filiera e quindi anche verso le aziende più piccole, con un’assunzione di responsabilità da parte delle grandi aziende a trasferire in maniera proattiva queste innovazioni. Faccio fatica a dire che ci sono alcuni settori che sono più avanti di altri o hanno capito meglio di altri, ci sono piuttosto delle eccellenze variamente distribuite e perciò dobbiamo continuare a lavorare in questa direzione. L’altro aspetto importante è che le imprese hanno capito che industria 4.0 non riguarda solo la fabbrica, ma tutta la filiera. Dovremmo perciò oggi parlare più propriamente di supply chain 4.0

Quali sono i vantaggi di condividere il modello 4.0 lungo tutta la filiera?

È necessario che queste tecniche e queste caratteristiche siano condivise da tutti gli attori della filiera. È importante connettere non solo le macchine ma connettere le fabbriche con le fabbriche. In questo senso è importante raccogliere i dati per ottimizzare lo OEE ed è importante scambiarli come fornitore o come cliente per far sì che anche le fabbriche siano connesse tra di loro. Spesso questo processo spaventa perché si teme di perdere i propri segreti industriali, il proprio know how. Condividere quei dati e solo quelli che sono necessari al beneficio dell’intera filiera aiuta ad essere efficiente e puntuale. C’è molta meno diffidenza ormai verso il cloud e questo ha consentito alle imprese italiane di focalizzarsi sui processi interni a più alto valore aggiunto, dimenticandosi in qualche misura dell’infrastruttura digitale, sulla quale è assurdo pensare di poter avere all’interno le competenze per poterla presidiare. Bisogna affidarsi a terzi che sono specializzati, che lo fanno meglio e a costi più bassi.

Un’altra parte dell’evoluzione di industria 4.0 sono stati anche i Competence Center che adesso sono una realtà attiva e ben nota ma solo pochi anni fa erano un progetto, una visione. Lei è coinvolto in prima persona nelle attività del Competence Center MADE e le chiedo perciò come sono andati questi primi anni. Le aziende hanno colto le opportunità e le possibilità anche di questo strumento?

I risultati che abbiamo ottenuto sono molto soddisfacenti e vanno al di là di quelle che erano le aspettative o gli impegni che avevamo preso col nostro progetto. Abbiamo avuto molte più aziende che hanno partecipato alle nostre attività di orientamento e di creazione di consapevolezza, alle nostre attività di formazione, ai nostri progetti, e anche i progetti supportati attraverso i bandi di cofinanziamento hanno avuto un successo incredibile. Abbiamo ricevuto quasi quattro volte le domande attese rispetto a quello che era il valore del finanziamento a disposizione. Siamo perciò molto contenti dell’efficacia che abbiamo raggiunto. È importante valutare il progetto anche come strumento di supporto alla digitalizzazione del Paese. In termini di efficienza dello strumento Competence Center, bisogna considerare che un’ora di formazione per una persona coincide col costo di erogazione e si tratta di un costo per lo Stato davvero bassissimo, perché facendo massa critica siamo capaci di fare economie di scala ed essendo no profit il prezzo di vendita dei nostri servizi è di fatto il valore di costo del servizio stesso. Un’azienda che viene a MADE per fare una formazione di mezza giornata ha una spesa irrisoria, ma l’impatto è elevatissimo. Le persone di quell’azienda che vengono da noi si avvicinano all’industria 4.0, toccano con mano cosa sia industria 4.0 e quali siano i vantaggi delle tecnologie in campo, quando tornano in azienda e attivano quel processo di trasformazione digitale attivano un processo di miglioramento della produttività di quell’impresa che è quello che farà sopravvivere quell’impresa. Si tratta di uno strumento davvero efficace, che potrebbe esserlo ancora di più con maggiori risorse, perché il numero di imprese che abbiamo raggiunto, seppur elevato, è ancora troppo piccolo rispetto al bisogno di consapevolezza o di trasformazione digitale di cui ha bisogno il Paese.

Guardando alle aziende che stanno facendo questo percorso di digitalizzazione, si può vedere una via italiana nel modo di fare industria 4.0?

L’industria 4.0 è molto adatta a un’industria come quella italiana, fatta di piccole e medie imprese. Bisogna quindi lavorare sull’automazione dei processi, supportando le persone che si trovano in fabbrica con dati e informazioni perché prendano delle decisioni che consentano di rendere anche quella piccola fabbrica più efficiente. Quando abbiamo costruito il competence Center avevamo di fronte una scelta: mostrare una bellissima linea completamente automatizzata e integrata, oppure far vedere piccoli esempi che funzionino separatamente l’uno dall’altro. Quest’ultima scelta ha permesso al nostro imprenditore di valutare l’adozione di tante migliorie possibili, senza il pericolo di un rifiuto verso un cambiamento troppo grande e poco fattibile.

Non appena entro in un’azienda sento i titolari lamentarsi della difficoltà di trovare figure specializzate sia con vecchie competenze (saldatori, piegatori…) sia con nuove (big data analyst, programmatori di robot…). Nel prossimo futuro la situazione sembra destinata a diventare una vera emergenza: cosa serve per invertire la rotta e risolvere questa criticità?

Questo è un duplice dramma, perché in Italia abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti in Europa e abbiamo una difficoltà delle nostre imprese a crescere proprio perché non trovano le persone con le competenze giuste. Le cause sono tante e diverse. C’è sicuramente un tema geografico perché le imprese che cercano si trovano principalmente in aree del Paese nelle quali non c’è una disoccupazione così alto, presente invece in altre aree dove però non ci sono imprese. Esiste poi il problema delle competenze. Al nostro sistema economico servono laureati in materie stem, e non abbiamo nemmeno, a differenza della Germania, quel forte sistema di istituti tecnici superiori diversi dai nostri ITIS, sui quali peraltro siamo comunque deboli. Mancano quelle figure intermedie che sono esattamente quelle che oggi le imprese cercano. Spesso si associa al mondo della fabbrica l’idea di sporco, fatica, stipendi bassi, incidenti. Non è così, non sono queste le nuove fabbriche, e oggi l’operaio specializzato guadagna più di un laureato.

Anche le imprese hanno una responsabilità legata alla formazione interna, perché spesso persone che stanno già lavorando in quella stessa azienda potrebbero fare le cose per le quali quell’imprenditore cerca soluzioni fuori.

Servitizzazione, cybersecurity, 5G… Quale sarà il tema chiave per l’evoluzione delle aziende manifatturiere italiane nei prossimi anni?

La cybersecurity non va considerato un elemento di competitività, ma è qualcosa di necessario che devo avere per mettere in sicurezza la mia impresa. Bisogna invece investire ai fini della competitività sul monitoraggio e sulla raccolta dei dati, sull’analisi dei dati. Connettere le macchine, raccogliere i dati e imparare a gestire la fabbrica usando i numeri delle prestazioni delle macchine, cercare le cause di un OEE basso, chiedersi perché la produttività di una macchina è ferma al 50% e non è all’85% sono le cose da fare per aumentare il proprio margine.

Le chiedo un ricordo personale. In questi anni il mondo manifatturiero è – a livello tecnologico – cambiato moltissimo: c’è qualcosa che però è rimasto uguale? Quando entra in azienda riconosce qualcosa del pre-industria 4.0?

In Italia sono rimaste costanti sicuramente la curiosità e la creatività. Spesso trovare delle soluzioni creative e inattese è fondamentale. Quello che è rimasto costante in senso negativo è la non consapevolezza dell’importanza delle competenze, e quindi della necessità di investire in formazione. Troppo spesso sento ancora dire no alla formazione, vista come una perdita di tempo sottratto al lavoro. Ecco, in questo mercato, questo significa davvero scavarsi la fossa.

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