Il convegno annuale di Amafond a Villa Fenaroli

I premiati con l’award alla carriera e l’intervista al presidente Maurizio Sala

di Mario Conserva

Abbiamo incontrato al grande Convegno Annuale di Amafond, tenuto il 29 Novembre scorso alla Villa Fenaroli di Rezzato (Brescia), il presidente dell’associazione Maurizio Sala, con il quale abbiamo scambiato commenti e opinioni sullo stato generale del sistema in cui in particolare si muove Amafond, sulle prospettive e sulle aspettative del mondo dell’imprenditoria. L’evento, diventato un appuntamento di rigore per il settore, ha visto una straordinaria partecipazione di operatori italiani ed esteri del comparto, ed ha proposto un programma di relazioni di altissimo livello su temi tecnici ed economici cogenti, presentate da speaker di notorietà internazionale.
Molto significativa la consegna dei consueti premi alla carriera destinati ad aziende personaggi che si sono particolarmente distinti nel segmento della fonderia metalli, riconoscimenti che quest’anno sono stati conferiti Fabio Boccacci della Fonderia Boccacci di La Spezia, Luigi Sala della Fonderia della Crocetta di Cinisello Balsamo, a Sergio Gnutti dell’Eural Gnutti di Rovato, a Maria Grazia Facchinetti della Lumpress di Lumezzane, a Mario Magaldi del Magaldi Group di Salerno e a Claudio Clavedon della Primafond di Thiene. Parleremo dei temi del convegno Amafond nei prossimi numeri di A&L, tenendo conto anche delle indicazioni e dei commenti del presidente Sala.

Come vede la situazione economica in generale e l’andamento del vostro mercato di riferimento?
Il contesto economico mondiale è certamente ancora più logorato rispetto alla già pesante situazione di pochi mesi fa, la situazione economica per le fonderie metalli e per noi fornitori è obiettivamente peggiorata, sia per chi opera nel settore dei ferrosi che per chi lavora nel settore delle leghe leggere, anche se in quest’ultimo segmento il quadro è molto variegato. Devo dire che già a partire dalla fine del 2017 avevamo iniziato a evidenziare i rischi del ritorno al protezionismo collegati alla guerra dei dazi; come era stato facile prevedere si è innescata una spirale perversa che nell’immediato ha generato qualche effimero effetto positivo, ma sul medio e lungo termine ci saranno effetti negativi per tutti. Oggi Il commercio mondiale è in forte frenata e i Paesi trasformatori ne soffrono, basta pensare al forte rallentamento della manifattura tedesca e di conseguenza di quella italiana, che ne è connessa strettamente attraverso comunicatene del valore come è il caso dell’industria automotive. La frenata della crescita ha indotto le banche centrali a modificare il proprio orientamento e da politiche di sostegno all’economia siamo tornati a un orizzonte di politiche monetarie lasche per timori ancestrali, pericoli di contaminazione e paure non ancora superate.

Tutta responsabilità della crisi dell’auto?
I numeri parlano chiaro, la produzione di auto in Europa dieci anni fa era pari al 27% mondiale mentre oggi è scesa di 7 punti. Riguardo all’Italia, i dati più recenti della produzione industriale evidenziano una rilevante frenata dell’automotive domestico, dal -11,4% del quarto trimestre 2018 al -9,5% del primo trimestre 2019, al -9,7% del secondo trimestre e lo stesso vale ovviamente per il settore della produzione di parti e accessori.
Ricordiamo che l’automotive nel nostro Paese comprende circa 6 mila imprese di cui molte PMI, con circa 160 mila addetti diretti che aumentano a 250 mila con l’indotto industriale collegato. Il settore rappresenta circa il 7% del totale degli addetti dell’intera manifattura italiana e il 5,6% del PIL italiano, stiamo parlando di un valore della produzione di 93 miliardi di euro di cui 24 miliardi di export. A causa di questo tumultuoso cambio di tendenza, molte imprese italiane e migliaia di occupati si trovano esposti a un rischio molto serio. E’ vero che il problema è europeo, ma mal comune non è mezzo gaudio: si tratta di una malattia molto grave con pesanti conseguenze occupazionali.

Crisi dell’auto, o incertezze sul futuro per i grandi cambiamenti all’orizzonte su tecnologie di propulsione, infrastrutture, nuove tecniche di guida assistita?
E’ chiaro che la posta in gioco è altissima, si tratta di una battaglia senza esclusione di colpi e senza regole per la supremazia. Riguardo alla trazione full electric e ibrida, Cina e Asia sono in netto vantaggio grazie al monopolio di componenti essenziali per la produzione di batterie, oltre che delle relative tecnologie. Sembra che ora l’Europa stia predisponendo opportune contromisure, ma intanto abbiamo dovuto subire il tentato suicidio assistito del diesel, che abbiamo celebrato in Europa accreditando la favoletta messa in giro dei problemi di emissioni, mentre i dati rilevati indicano inequivocabilmente che al calo delle vendite di vetture con motore diesel fa riscontro un aumento percentuale parallelo d’inquinamento ambientale e che una vettura con motore diesel di nuova generazione, dopo 100.000 km inquina meno di una macchina elettrica. E’ possibile un ritorno alla ragione, ma intanto le conseguenze si sono sentite, la frenata dell’automotive in Germania non è certamente solo conseguenza del Dieselgate, però i dubbi e lo sconcerto dei consumatori hanno pesato abbastanza.

E per l’Italia come vede la situazione?
Come privato cittadino ho le mie idee e un po’ di esperienza, vedo decisori con molte incertezze e tanta dialettica, sono convinto sulla base del buon senso che deficit e debito vadano ridotti non perché lo chiede o ce lo impone l’Europa (e adesso a Francoforte non abbiamo più Draghi), ma perché è interesse primario per noi e per il nostro futuro. Comunque se per crescere bastasse il deficit dovremmo essere in testa a tutte le graduatorie, visto il nostro debito pubblico da record mondiale, invece il risultato è che purtroppo siamo l’ultimo paese UE per tasso di crescita previsto, siamo un Paese che negli ultimi vent’anni è cresciuto solo dello 0,2% in media l’anno, che ha una percentuale di occupati inferiore rispetto a quasi tutto il resto d’Europa. Vedo quindi molte ombre, paradossalmente però mi inorgoglisce pensare che nonostante tutto c’è un sistema industriale in Italia che riesce a sopravvivere, e allora mi riprende la voglia di combattere la battaglia di tutti i giorni da imprenditore, così voglio sottolineare prima di tutto che abbiamo ribadito innumerevoli volte la necessità del ripristino integrale di Industria 4.0, trovo incomprensibile e assurdo che una legge funzionante venga abolita solo perché promulgata dal governo precedente. Purtroppo è un dato di fatto che il crollo degli investimenti ci sta trascinando di nuovo verso la recessione. Alcuni dati significativi, dal secondo semestre 2016 al primo del 2018 abbiamo registrato una forte accelerazione degli investimenti in macchinari, attrezzature, impianti, proprietà intellettuale, con tassi di crescita compresi tra il 6 e il 9%; dal secondo semestre 2018, con la riduzione di Industria 4.0 l’andamento degli investimenti è diventato -0,4%, e solo di+0,4% nel primo semestre 2019.
Non solo ritengo indispensabile la conferma integrale della legge, ma occorre andare oltre e guardare più lontano, serve una seria politica pluriennale di sostegno strutturale alla ricerca e allo sviluppo, senza la quale non è possibile crescere nelle catene del valore né risalire in termini di produttività e competitività. E’ indispensabile un colpo di reni per riprendere a spron battuto i dossier industriali trascurati dall’Italia nell’Unione Europea a cominciare da quello dell’automotive, e della dislocazione in corso d’importanti investimenti asiatici. E’ demoralizzante vedere che in Francia e Germania si stiano impegnando nella messa in pista di stabilimenti e produzioni nel settore decisivo delle tecnologie per la trazione ibrida e full electric, mentre in Italia, il Paese della Ferrari, della Maserati e dell’Alfa Romeo, si registra la totale assenza di iniziative, strategie e prospettive.

In compenso abbiamo anche il grande problema dell’Ilva, un colosso dalle basi di argilla, un caso complicato di enorme valenza industriale, sociale e politica.
La triste vicenda dell’Ilva è un condensato di errori e conferma l’attitudine a sottovalutare gli effetti che certe decisioni della politica hanno sull’economia reale. In questo caso è stato trascurato il fatto che la sostenibilità è un concetto complessivo e armonico legato a fattori ambientali, sociali ed economici. Non siamo stati capaci di tenere sotto controllo tutti gli elementi in gioco, così oggi siamo di fronte ad una scelta difficile, forse impossibile, maturata nel disinteresse di chi doveva vigilare.
E’ certo chela produzione di acciaio in un paese industriale come il nostro è di grande importanza, l’impianto di Taranto ha poi uno straordinario rilievo per l’economia e l’occupazione locale e nazionale, con i suoi 10 mila dipendenti diretti a cui si aggiungono le imprese e i lavoratori dell’indotto con i quali si raggiunge un totale di 25.000 occupati. Senza contare il fatto che con una eventuale chiusura andrebbe perso un enorme patrimonio di tecnologia applicata e quasi un punto del PIL. Non sarà facile ma la priorità delle soluzioni di salvaguardia dell’ambiente dovrà andare in parallelo con quella di conservare uno tra gli asset fondamentali per la manifattura del nostro Paese. Il caso Ilva è un banco di prova per il nostro sistema industriale e politico, occorre recuperare buon senso e pragmatismo rifuggendo dalle semplificazioni, rispolverare competenze e capacità decisionali, smettere di navigare a vista e definire obiettivi chiari da conseguire nell’interesse generale.

Riesce a concludere con qualche segnale positivo?
Non è facile, purtroppo in un mondo che richiede sempre più dinamismo, intraprendenza e creatività l’Italia appare come paralizzata, incapace di iniziative concrete. Però ognuno di noi deve fare la propria parte, io da imprenditore e da cittadino faccio la mia, dico di no a questo lassismo strisciante delle non decisioni e dello scaricabarile, delle colpe che sono sempre degli altri, un percorso che ci porta dritti al baratro. Dico di sì invece alle nostre fabbriche, ai nostri collaboratori, a quell’Italia che difende il lavoro e guarda a quello delle generazioni future, e a quella sana imprenditoria ben viva ancora nel nostro paese che continua a vedere l’impresa come un grande strumento per assicurare opportunità e benessere alla collettività.