IA e controllo di processo: a che punto siamo?

Insieme al professor Gruosso del Politecnico di Milano, abbiamo fatto il punto sull’evoluzione dell’intelligenza artificiale nel controllo di processo: potenzialità e criticità, algoritmi in via di sviluppo, mancanza di risorse qualificate e molto altro.

L’impiego dell’intelligenza artificiale (IA) nel controllo di processo è uno dei trend più interessanti di oggi e del prossimo futuro. Iniziato alcuni anni fa, non ha ancora trovato una sua completezza implementativa. Molto si fa a livello di ricerca, ma in termini di applicazioni concrete, molto è ancora da fare. Ne abbiamo parlato col professor Giambattista Gruosso del Dipartimento di elettronica, informazione e bioingegneria del Politecnico di Milano.

In un quadro generale, a che punto  è l’evoluzione dell’IA?

Negli ultimi anni sono stati fatti tanti sforzi in termini di digitalizzazione. Parlo di macchinari connessi, gemelli digitali e via dicendo. Uno dei nodi principali però è che se la mole di dati ottenuti non viene impiegata per una fase di analisi, si rimane in stand by.

Oggi l’analisi può essere eseguita in modi diversi. Una fase è quella fatta dagli operatori, che si basano sulle informazioni raccolte. Ci sono poi i modelli di previsione, ed entriamo nel cuore del machine learning. I dati vengono utilizzati per creare modelli di tipo “black box”, per analizzare sia quello che avviene in quel momento, sia quello che potrebbe accadere in futuro. Una delle applicazioni principali infatti è la manutenzione predittiva.

Un’altra analisi è quella in cui l’IA, sempre tramite i dati raccolti e i modelli di machine learning, permette ai sistemi di prendere decisioni in modo automatico. Può essere utilizzata per trovare relazioni che noi esseri umani non avevamo individuato. Mi spiego. Oggi il machine learning è applicato perché viene formulata una domanda relativa a un problema. Ad esempio, determinare quando un pezzo si rompe. In questa fase di analisi sarebbe invece l’IA a individuare possibili domande.

E qui entrano in gioco gli algoritmi

Esattamente. Sono di due tipologie, supervisionati o non supervisionati. Nel primo caso, sono stati categorizzati da un essere umano, che crea un evento nominato ad esempio “guasto”, “picco di produzione” e così via. Le famose domande di cui parlavamo prima. Nel caso degli algoritmi non supervisionati, le domande non vengono poste ma è il sistema ad agire autonomamente: quando si verifica una situazione critica e riesce ad apportare un miglioramento, propone una decisione. Ovviamente questa decisione, soprattutto in un processo industriale, deve essere validata da un team di operatori nel rispetto di normative molto severe.

Fino a ora abbiamo parlato dell’AI a livello generale. È possibile circoscriverla in termini di Paesi, con i relativi potenziali e le varie criticità?

L’industria di processo è un’industria multinazionale, per cui il modo di produrre non può variare molto a seconda dei Paesi, ci sono determinate caratteristiche di prodotto. Non parliamo quindi di azioni a livello di singoli Stati ma, in molti casi, di grosse imprese. Oggi a livello di esperienze siamo ancora agli albori, non ci sono soluzioni consolidate di approcci di questo tipo. Sicuramente c’è una serie di aspetti su cui puntare. Ad esempio si sta provando a impiegare sempre più sensori per riconoscere difettosità tramite telecamere, o rilevare fughe di sostanze tossiche. Un contesto in cui per l’IA cominciano a esserci dei “pilota” a livello internazionale. Sugli algoritmi decisionali in termini macroscopici, probabilmente non si è ancora arrivati a quel punto.

Parlando invece di cyber security, la pericolosità si evolve in parallelo all’evoluzione della IA? Ci sono nuovi rischi?

Il mondo industriale è diverso rispetto ad esempio al mondo di una banca, dove c’è più connessione con l’esterno. Molto spesso nelle reti industriali infatti c’è una separazione importante fra il mondo esterno e quello interno. Parliamo di reti di stabilimento in cui il rischio maggiore non è un cyber attacco, ma un intento malevolo da parte di un addetto. Il tema principale è più legato all’affidabilità dei sistemi: lasciandogli totalmente il controllo, si possono verificare situazioni critiche o di instabilità che devono essere supervisionate. Fondamentale è la qualità del dato, che può avere un impatto sulle decisioni prese dal sistema automatico. Esempio: se un sensore si rompe, devo sapere con certezza cosa deciderà il sistema. Bisogna quindi lavorare più sulla robustezza degli algoritmi che sulla vulnerabilità, creando le condizioni perché possano funzionare al meglio. 

Ci sono attualmente algoritmi in via di sviluppo?

Dal punto di vista della ricerca ce ne sono tanti, ma quelli applicati sono ancora in fase di rodaggio. Si valutano le opportunità di algoritmi più consolidati, e qui entra in gioco il know-how dei fornitori. Il fornitore del sistema informativo propone algoritmi che ha validato, e che resteranno attivi per alcuni anni. I tempi delle aziende infatti sono più lunghi rispetto a quelli della ricerca: se un’impresa investe in un determinato sistema informativo, dovrà durare almeno un decennio, mantenendo gli stessi algoritmi.

Quali sono le affinità e le differente fra l’applicazione dell’IA su macchine e processo?

C’è un filone comune che caratterizza i due sistemi, colonna vertebrale dell’implementazione. E poi ci sono le peculiarità. Nell’industria basata su macchina, molto spesso l’IA serve anche a gestire il coordinamento uomo-macchina e fra le macchine. Penso alle navette che si muovono all’interno di uno stabilimento, evitando addetti e collisioni. In questo caso si ha un’interazione fra sistemi. Nel caso dell’industria di processo, dove spesso avviene tutto in ciclo chiuso, gli operatori sono più manutentori o legati alle sale operative dove avviene il controllo di processo. Parliamo di strumenti che aiutano da una parte gli addetti a capire se e quando intervenire, e dall’altra chi gestisce il processo ad avere informazioni per valutare l’eventuale cambio delle variabili. Quindi, in un caso ci sono più persone o più macchine che lavorano nello stesso stabilimento e devono interagire fra di loro. Nell’altro c’è la centrale di controllo che segue il processo. Si va verso due modelli di uso completamente diversi.

Quali problematiche affrontano le aziende in Italia nell’implementare le nuove tecnologie? Per le PMI è più difficoltoso?

Credo sia più una questione di filiera che di dimensioni d’impresa. Il mondo del controllo di processo usa tecnologie digitali almeno da un trentennio. Oggi è impensabile gestire ad esempio un impianto petrolchimico senza uno SCADA. In questo settore le aziende sono molto più mature rispetto ad altre, perché la filiera è stata fra le prime a puntare sulla digitalizzazione, così come nel farmaceutico. Lo stesso vale per le catene di fornitura: se l’utente finale richiede caratteristiche molto precise, tutta la filiera si adegua. Ad esempio, l’automotive è stato fra i primi a stabilire come requisito la digitalizzazione, e i fornitori hanno dovuto stare al passo, a prescindere dalla dimensione aziendale. Sicuramente l’incentivo dato negli ultimi anni sia dai finanziamenti Industria 4.0, sia ahimè dal Covid, ha accelerato il processo. Direi comunque che in termini di trend, l’Italia è a un buon livello. 

Detto questo, uno dei problemi principali al momento è la mancanza di risorse qualificate rispetto al fabbisogno dei settori tecnici. Oggi i datori di lavoro operano in due ambiti, servizi e manifatturiero. È una bella lotta accaparrarsi le menti migliori, e vince il mondo dei servizi, perché offre ai neolaureati contratti e paghe migliori. Parlo in primis di banche e assicurazioni. e aziende manifatturiere devono rendersi più appetibili, ma è una questione delicata sotto molti punti di vista. A questo si aggiunge un gap generazionale di natura tecnologica. Le aziende cercano persone già formate, perché non hanno al loro interno nessuno capace di formarle sulle nuove tecnologie. L’università però forma gli studenti non su un problema specifico, ma su problemi più ampi. Ci vorranno ancora diversi anni per colmare il buco.

Ultima domanda: quale sarà il prossimo step dell’IA?

Sicuramente quando i neolaureati inizieranno a prendere confidenza sul campo con queste nuove tecnologie, ci sarà la diffusione a macchia d’olio. Essendo mobili nelle aziende, porteranno con loro il nuovo bagaglio di esperienze professionali. Altro step: ci si aspetta dai fornitori di tecnologia novità importanti in termini di componenti già intelligenti, perché molti sensori e sistemi iniziano a integrare a bordo la IA.